Qualcosa era successo - Dino Buzzati - 60 Racconti 1958
Il treno aveva percorso solo pochi chilometri (e la strada era lunga, ci
saremmo fermati soltanto alla lontanissima stazione d'arrivo, così
correndo per dieci ore filate) quando a un passaggio a livello vidi dal
finestrino una giovane donna. Fu un caso, potevo guardare tante altre
cose invece lo sguardo cadde su di lei che non era bella né di sagoma
piacente, non aveva proprio niente di straordinario, chissà perché mi
capitava di guardarla. Si era evidentemente appoggiata alla sbarra per
godersi la vista del nostro treno, superdirettissimo, espresso del nord,
simbolo per quelle popolazioni incolte, di miliardi, vita facile,
avventurieri, splendide valige di cuoio, celebrità, dive
cinematografiche, una volta al giorno questo meraviglioso spettacolo, e
assolutamente gratuito per giunta.
Ma come il treno le passò
davanti lei non guardò dalla nostra parte (eppure era là ad aspettare
forse da un'ora) bensì teneva la testa voltata indietro badando a un
uomo che arrivava di corsa dal fondo della via e urlava qualcosa che noi
naturalmente non potemmo udire: come se accorresse a precipizio per
avvertire la donna di un pericolo. Ma fu un attimo: la scena volò via,
ed ecco io mi chiedevo quale affanno potesse essere giunto, per mezzo di
quell'uomo, alla ragazza venuta a contemplarci. E stavo per
addormentarmi al ritmico dondolio della vettura quando per caso -
certamente si trattava di una pura e semplice combinazione - notai un
contadino in piedi su un muretto che chiamava chiamava verso la campagna
facendosi delle mani portavoce. Fu anche questa volta un attimo perché
il direttissimo filava eppure feci in tempo a vedere sei sette persone
che accorrevano attraverso i prati, le coltivazioni, l'erba medica, non
importa se la calpestavano, doveva essere una cosa assai importante.
Venivano da diverse direzioni chi da una casa, chi dal buco di una siepe
chi da un filare di viti o che so io, diretti tutti al muriccioio con
sopra il giovane chiamante. Correvano, accidenti se correvano, si
sarebbero detti spaventati da qualche avvertimento repentino che li
incuriosiva terribilmente, togliendo loro la pace della vita. Ma fu un
attimo, ripeto, un baleno, non ci fu tempo per altre osservazioni.
Che
strano, pensai, in pochi chilometri già due casi di gente che riceve
una improvvisa notizia, così almeno presumevo. Ora, vagamente
suggestionato, scrutavo la campagna, le strade, i paeselli, le fattorie,
con presentimenti ed inquietudini.
Forse dipendeva da questo
speciale stato d'animo, ma più osservavo la gente, contadini, carradori,
eccetera, più mi sembrava che ci fosse dappertutto una inconsueta
animazione. Ma sì, perché quell'andirivieni nei cortili, quelle donne
affannate, quei carri, quel bestiame? Dovunque era lo stesso. A motivo
della velocità era impossibile distinguere bene eppure avrei giurato che
fosse la medesima causa dovunque. Forse che nella zona si celebravan
sagre? Che gli uomini si disponessero a raggiungere il mercato? Ma il
treno andava e le campagne erano tutte in fermento, a giudicare dalla
confusione. E allora misi in rapporto la donna del passaggio a livello,
il giovane sul muretto, il viavai dei contadini: qualche cosa era
successo e noi sul treno non ne sapevamo niente.
Guardai i
compagni di viaggio, quelli dello scompartimento, quelli in piedi nel
corridoio. Essi non si erano accorti. Sembravano tranquilli e una
signora di fronte a me sui sessant'anni stava per prender sonno. O
invece sospettavano? Sì, sì, anche loro erano inquieti, uno per uno, e
non osavano parlare. Più di una volta li sorpresi, volgendo gli occhi
repentini, guatare fuori. Specialmente la signora sonnolenta, proprio
lei, sbirciava tra le palpebre e poi subito mi controllava se mai
l'avessi smascherata. Ma di che avevano paura?
Napoli. Qui di
solito il treno si ferma. Non oggi il direttissimo. Sfilarono rasente a
noi le vecchie case e nei cortili oscuri vedemmo finestre illuminate e
in quelle stanze - fu un attimo - uomini e donne chini a fare involti e
chiudere valige, così pareva. Oppure mi ingannavo ed erano tutte
fantasie?
Si preparavano a partire. Per dove? Non una notizia
fausta dunque elettrizzava città e campagne. Una minaccia, un pericolo,
un avvertimento di malora. Poi mi dicevo: ma se ci fosse un grosso
guaio, avrebbero pure fatto fermare il treno; e il treno invece trovava
tutto in ordine, sempre segnali di via libera, scambi perfetti, come per
un viaggio inaugurale.
Un giovane al mio fianco, con l'aria di
sgranchirsi, si era alzato in piedi. In realtà voleva vedere meglio e si
curvava sopra di me per essere più vicino al vetro. Fuori, le campagne,
il sole, le strade bianche e sulle strade carriaggi, camion, gruppi di
gente a piedi, lunghe carovane come quelle che traggono ai santuari nel
giorno del patrono. Ma erano tanti, sempre più folti man mano che il
treno si avvicinava al nord. E tutti avevano la stessa direzione,
scendevano verso mezzogiorno, fuggivano il pericolo mentre noi gli si
andava direttamente incontro, a velocità pazza ci precipitavamo verso la
guerra, la rivoluzione, la pestilenza, il fuoco, che cosa poteva
esserci mai? Non lo avremmo saputo che fra cinque ore, al momento
dell'arrivo, e forse sarebbe stato troppo tardi.
Nessuno diceva
niente. Nessuno voleva essere il primo a cedere. Ciascuno forse dubitava
di sé, come facevo io, nell'incertezza se tutto quell'allarme fosse
reale o semplicemente un'idea pazza, allucinazione, uno di quei pensieri
assurdi che infatti nascono in treno quando si è un poco stanchi. La
signora di fronte trasse un sospiro, simulando di essersi svegliata, e
come chi uscendo dal sonno leva gli sguardi meccanicamente, così lei
alzo le pupille fissandole, quasi per caso, alla maniglia del segnale
d'allarme. E anche noi tutti guardammo l'ordigno, con l'identico
pensiero. Ma nessuno parlò o ebbe l'audacia di rompere il silenzio o
semplicemente osò chiedere agli altri se avessero notato, fuori, qualche
cosa di allarmante.
Ora le strade formicolavano di veicoli e
gente, tutti in cammino verso il sud. Rigurgitanti i treni che ci
venivano incontro. Pieni di stupore gli sguardi di coloro che da terra
ci vedevano passare, volando con tanta fretta al settentrione. E zeppe
le stazioni. Qualcuno ci faceva cenno, altri ci urlavano delle frasi di
cui si percepivano soltanto le vocali come echi di montagna.
La
signora di fronte prese a fissarmi. Con le mani piene di gioielli
cincischiava nervosamente un fazzo1etto e intanto i suoi sguardi
supplicavano: parlassi, finalmente, li sollevassi da quel silenzio,
pronunciassi la domanda che tutti si aspettavano come una grazia e
nessuno per primo osava fare.
Ecco un'altra città. Come il
treno, entrando nella stazione, rallentò un poco, due tre si alzarono
non resistendo alla speranza che il macchinista fermasse. Invece si
passò, fragoroso turbine, lungo le banchine dove una folla inquieta si
accalcava anelando a un convoglio che partisse, tra caotici mucchi di
bagagli. Un ragazzino tentò di rincorrerci con un pacco di giornali e ne
sventolava uno che aveva un grande titolo nero in prima pagina. Allora
con un gesto repentino, la signora di fronte a me si sporse in fuori,
riuscì ad abbrancare il foglio ma il vento della corsa glielo strappò
via. Tra le dita restò un brandello. Mi accorsi che le sue mani
tremavano nell'atto di spiegarlo. Era un pezzetto triangolare. Si
leggeva la testata e del gran titolo solo quattro lettere. IONE, si
leggeva. Nient'altro. Sul verso, indifferenti notizie di cronaca.
Senza
parole, la signora alzò un poco il frammento affinché tutti lo
potessero vedere. Ma tutti avevamo già guardato. E si finse di non farci
caso. Crescendo la paura, più forte in ciascuno si faceva quel ritegno.
Verso una cosa che finisce in IONE noi correvamo come pazzi, e doveva
essere spaventosa se, alla notizia, popolazioni intere si erano date a
immediata fuga. Un fatto nuovo e potentissimo aveva rotto la vita del
Paese, uomini e donne pensavano solo a salvarsi, abbandonando case,
lavoro, affari, tutto, ma il nostro treno no, il maledetto treno
marciava con la regolarità di un orologio, al modo del soldato onesto
che risale le turbe dell'esercito in disfatta per raggiungere la sua
trincea dove il nemico già sta bivaccando. E per decenza, per un
rispetto umano miserabile, nessuno di noi aveva il coraggio di reagire.
Oh i treni come assomigliano alla vita!
Mancavano due ore. Tra
due ore, all'arrivo, avremmo saputo la comune sorte. Due ore, un'ora e
mezzo, un'ora, già scendeva il buio. Vedemmo di lontano i lumi della
sospirata nostra città e il loro immobile splendore riverberante un
giallo alone in cielo ci ridiede un fiato di coraggio. La locomotiva
emise un fischio, le ruote strepitarono sul labirinto degli scambi. La
stazione, la curva nera delle tettoie, le lampade, i cartelli, tutto
era a posto come il solito.
Ma, orrore!, il direttissimo ancora
andava e vidi che la stazione era deserta, vuote e nude le banchine, non
una figura umana per quanto si cercasse. Il treno si fermava
finalmente. Corremmo giù per i marciapiedi, verso l'uscita, alla caccia
di qualche nostro simile. Mi parve di intravedere, nell'angolo a destra
in fondo, un po' in penombra, un ferroviere col suo berrettuccio che si
eclissava da una porta, come terrorizzato. Che cosa era successo? In
città non avremmo più trovato un'anima? Finché la voce di una donna,
altissima e violenta come uno sparo, ci diede un brivido.
"
Aiuto! Aiuto! " urlava e il grido si ripercosse sotto le vitree volte
con la vacua sonorità dei luoghi per sempre abbandonati.
giovedì 3 gennaio 2013
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