sabato 6 marzo 2010
Il crollo ...
La sede del Partito era imponente, svettava alta sulla collina che sovrastava la capitale, sembrava toccasse le nuvole. Le luci erano sempre accese e i fari illuminavano i simboli luccicanti.
Enormi scritte scorrevoli ripetevano all'infinito le parole d'ordine. I colori rassicuranti del Partito erano il prodotto di innumerevoli manifesti, striscioni, bandiere, adesivi. Sul tetto, in una scenografia imponente, stavano i ritratti del Presidente con attorno un prato di bandiere che ondeggiava nel vento.
Chi si fosse avvicinato avrebbe però trovato una muraglia di colorati cartelloni pubblicitari, sostenuta da invisibili e scheletrici sostegni fatti di una arrugginita rete di tubi metallici, e poi barriere, avvertimenti minacciosi, fossati, telecamere.
Ma quei luoghi, così apparentemente inespugnabili, erano frequentati da qualche ragazzino curioso. Sapevano che gli ostacoli erano superabili, che la sorveglianza era saltuaria e distratta, che l'occhio delle telecamere era spento e molte puntavano sul nulla, che le guardie seguivano i potenti in alto e, quando si affacciavano, avevano lo sguardo annoiato e perso verso l'orizzonte, inoffensive nonostante i mitra a tracolla.
Superate le barriere, salendo sulla collina, via via che ci si avvicinava, la lucente visione d'insieme mostrava i suoi particolari. Si riconoscevano i segni di una crescita troppo veloce, nelle parti basse dell'edificio, in cui non viveva nessuno, c'erano cantieri chiusi e ormai abbandonati, travi colonne e sostegni temporanei che mostravano la loro età. Molte altre zone, più in alto, erano invece ancora in costruzione. Nuove aggiunte si sovrapponevano alle vecchie: sopraelevazioni, nuove aperture che interrompevano il susseguirsi delle colonne. Sempre nuove vetrate, terrazze e punti panoramici venivano aggiunti per permettere a chi le affollava di contemplare – in basso – l'oggetto del proprio potere.
E ancora tralicci con antenne di ogni tipo, eliporti, giardini e piscine pensili.
Guardando in alto si poteva immaginare ogni lusso: il potere aveva la sua cattedrale. Ma, alla base di quella costruzione, alcuni pilastri a cui era ceduta la fondazione restavano appesi come stalattiti. Le piastrelle luccicanti ed i marmi erano caduti e giacevano in frantumi alla base dei muri. Molto più spesso i rivestimenti erano solo plastica e vernice, la cui breve vita si era esaurita da tempo mettendo in mostra le strutture in cui l'intonaco era percorso da ampie crepe che si ramificavano e da nere macchie di umidità. Rivoli di liquame emergevano dalla terra di riporto; degli alberi piantati per qualche remota inaugurazione erano rimasti solo gli scheletri; rade erbacce resistevano nel terreno smosso, ormai ridotto a una fangosa poltiglia maleodorante.
Dall'alto veniva il suono ripetuto dei lieti motivi musicali della pubblicità di Partito. I suoni erano attutiti perchè inviati verso la città e la base del palazzo era nel cono d'ombra; si poteva così sentire in sottofondo l'accompagnamento musicale delle feste private. Musiche di ogni tipo mescolate, laggiù, a crepitii elettrici e ad un ronzio di motori che spesso si trasformava in un sibilo seguito da un borbottio, una rauca tosse meccanica che come una malattia a volte si protraeva, a volte decorreva immediatamente in un ultimo singulto metallico seguito da un attimo di silenzio, subito riempito da altre vibrazioni.
Tutta la struttura vibrava; ad ogni alito di vento il concerto delle correnti d'aria si univa ad una bassa e sinistra vibrazione che si poteva percepire nel profondo della gabbia toracica.
Ma nemmeno l'osservatore più avventuroso avrebbe potuto sapere che chi non era ammesso ai piani più alti del palazzo cercava comunque di costruirsi una comoda tana al suo interno, da cui esercitare il proprio potere su coloro che vivevano lontano, ai piedi della collina.
Avevano così scavato cunicoli, unito stanze, creato piscine coperte, campi di calcetto, palestre, cinema, ristoranti, bordelli. Come topi nel formaggio scavavano dentro il palazzo del potere cercando di riflettere al suo interno quanto i più potenti potevano sfoggiare sulla sua crosta esterna.
Accadde così un giorno, un giorno come gli altri, che l'ultimo arrivato decidesse di installarsi in una stanza abbandonata. La squadra di operai tolse i puntelli che sorreggevano il soffitto e cominciò a ricoprire le pareti e a portare gli arredi.
Era ormai sera e l'ultimo arrivato era solo; respirava contento l'odore delle plastiche, delle colle e dei solventi che ancora si diffondevano. Mescolato a questi profumi, un odore indubbiamente non sintetico lo disturbava: per capirne la provenienza si avvicinò alla finestra e l'aprì. L'odore veniva da fuori ma ora era un suono di materia sotto sforzo, che improvvisamente era apparso, ad attirare la sua attenzione: l'apertura della finestra tremava. Arretrò, la finestra cominciò a deformarsi ed esplose.
Il muro della stanza crollò e la luce entrò grigia. L'ultimo arrivato era fermo, appoggiato alla parete, incredulo, prese il telefonino ma non riuscì a finire il numero, perchè, come un castello di carte, quella parte dell'edificio crollò.
Rimase un foro, come una finestrella in un castello di sabbia. Il crollo scosse la struttura che per un attimo si fermò, ma poi - quasi scuotesse le spalle - tutto riprese come prima: senza preoccupazioni, ignari e sicuri gli occupanti continuarono le loro attività, la musica riprese decisa.
La vibrazione si propagò quasi pigramente lungo tutto l'edificio e raggiunse i suoi estremi dove, con un colpo di frusta scaricò la sua energia. Chi osservava il potere dalla città non si accorse del primo crollo, ma vide l'edificio richiudersi di colpo su se stesso, come una fisarmonica tra due mani enormi. Il crollo finale fu rapidissimo, il fumo non si era ancora alzato quando, per un attimo, rimase sospesa in aria l'immagine sorridente del Presidente, quella più grande e più alta, che fino ad un attimo prima sovrastava con aria di sfida quelle che ormai erano solo macerie, era ancora illuminata, poi - lentamente - comincio ad inclinarsi.
E tutto si spense.
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