Ho cominciato, quasi per caso, a seguire un corso per fare volontariato in carcere ed ieri c'è stato un altro incontro che - diversamente dagli altri - si è tenuto in carcere.
Quei luoghi li conoscevo, non mi ha quindi fatto la stessa impressione della prima volta vedere le mura dall'interno, sentire chiudere porte e cancelli dietro le spalle, entrare in ambienti in cui l'esterno era solo quel piccolo spicchio di cielo visto dai lucernai, sentirmi osservato.
Le altre volte i carcerati li avevo visti da lontano, ieri invece ce n'erano un po' tra noi, anche loro seduti ad ascoltare.
La retorica del disumano è quel cancro del pensiero che ti fa tirare una linea oltre la quale non esiste più umanità e quindi tutto si può fare a quelle non persone: bruciare barboni, sparare dagli elicotteri su donne e bambini, rispedire in Libia i migranti, bastonare a sangue freddo dei manifestanti, non dar da mangiare a bambini dell'asilo e così via. Questa retorica vuole che si chiudano i carcerati in gabbie e li si dimentichi.
Solo chi ne è immune può pensare di entrare in carcere, di avvicinarsi agli intoccabili. Da questo punto di vista - quindi - non ho provato alcun disagio.
Ma il momento in cui le mie convinzioni sono saltate è stato quando, dopo i relatori, ha preso la parola un carcerato.
Un signore sulla sessantina, curato, ergastolano.
Ha cominciato a leggere un intervento preparato: un buon intervento, non originale, ma scritto in un ottimo italiano.
Ma non è stato l'intervento a colpirmi, è stato il comportamento: quel signore era come un ragazzino all'interrogazione; quando ha studiato ma l'emozione ha il sopravvento. I piedi sotto il tavolo andavano a mille, la voce non riusciva a interpretare il proprio testo. Le frasi si accavallavano come volesse terminare in fretta; ma al tempo stesso voleva stare lì, si era preparato bene, ci teneva.
Mi ha ricordato lo studente che sono stato tanti anni fa.
Un applauso che sembrava un abbraccio lo ha salutato e poi siamo dovuti uscire.
Oggi, in una delle mie classi, riconosco tutto quel che porta al carcere: la rinuncia, la rabbia, la disperazione, l'ignoranza, l'incapacità di affrontare la vita, la violenza, l'indolenza, la superbia, le pretese, i lamenti, la paura, il senso di inadeguatezza.
Mi sento impotente, quest'anno non sono servito a nulla: i mesi sono passati ma i ragazzi - e nemmeno tutti - si limitano a guardarmi, alcuni mi parlano, ma nessuno ha mai studiato nulla; come professore sono stato ignorato - non era mai successo. Certo il compito era difficile, ma non mi aspettavo un fallimento del genere.
L'unica cosa che mi rimane da fare è dare loro un esempio: ribadire che senza impegno non si merita nulla. Sarà un'altra fatica, una fatica pesante, ma non c'è altro che possa fare. Per strano che sia, sono convinto che sia l'unica cosa che posso fare per loro e per chi ne volesse seguire l'esempio.
Ora penso: se tutta questa energia l'avessi impegnata altrove, forse avrei dato e ottenuto di più e non sarei così svuotato.
Mi sembra quasi un tradimento verso quei poveri ragazzi, ma credo proprio che la mia energia sia meglio impiegata altrove.
Se non posso far nulla per prevenire, posso almeno provare a curare.
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1 commento:
Io ho a che fare con i loro genitori, ho la stessa delusione però, diversamente, penso che il mio impegno in altri settori non mi darebbero maggiori soddisfazioni perché la nostra società, divora solo i più onesti o i meno peggio.
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