Ci vorrà tempo prima che la scuola appaia a tutti per quel che è diventata: una macchina di sterminio culturale che si unisce alla televisione per mantenere gli italiani al guinzaglio, ma qualcosa trapela.
Il punto è che tutto viene - come sempre - ridotto ad una scelta tra due sole opzioni. La solita scelta da tifosi: licenziare o assumere i precari? Non sembrano esserci alternative, ma così si perde di vista il problema vero che è la qualità dell'insegnamento.
La realtà, che nessun politico osa dire, è ci sono sia "precari" che docenti di "ruolo" che sono semplicemente inadatti a insegnare.
E il discorso vale - con percentuali ancora maggiori per il rimanente personale della scuola (dirigenti in testa).
La domanda che mi sono fatto tante volte è come si potrebbe fare in modo che la scuola sia fatta da chi la sa fare? L'unica risposta che ho trovato è quella di organizzare una scuola "privata" al di fuori di quella pubblica. Di ricominciare da zero.
Sul Fatto Quotidiano del 3 settembre è uscito questo articolo che - come dice il titolo - mostra che con un po' di fantasia una soluzione esiste.
Forse c’è un’altra strada
di Michele Boldrin
La nuova sceneggiata è servita. Da un lato i precari della scuola che fanno lo sciopero della fame e un sindacato che vuole solo mantenere lo status quo. Dall’altra un ministro che si vanta dei propri tagli senza capire (i suoi consiglieri non gliel’hanno evidentemente spiegato) che il problema è come è organizzata e gestita la scuola italiana. In mezzo i media che, anziché documentare le colpe d’una parte e dell’altra (e la necessità di una svolta), alimentano la polemica.
Ulteriore fotografia, se ce ne fosse bisogno, di una classe dirigente uniformemente inetta.
È chiaro a chiunque non abbia fette di salame ideologico sugli occhi che l’ennesima apertura caotica dell’anno scolastico è il frutto di scelte miopi e accomodanti di questo governo e di molti che l'hanno preceduto. Oltre che di politiche sindacali improntate al più bieco corporativismo e alla massimizzazione della spesa, invece che alla sua efficienza e produttività. Così come è chiaro (fuorché alla Gelmini e a Tremonti) che la soluzione non consiste in miopi tagli orizzontali, ed è chiaro (fuorché ai sindacati) anche che non è spendere di più e impedire i cambiamenti nell'organizzazione del lavoro.
Eppure, se l’obiettivo fosse far funzionare meglio la scuola italiana, il problema si potrebbe risolvere. Ecco gli ingredienti in ordine sparso.
Decentralizzare per davvero le decisioni di assunzione e impiego del personale lasciando completa autonomia contrattuale ai provveditorati. Trasformare ogni scuola in una cooperativa d’insegnanti a cui lo Stato dà in concessione a tempo indeterminato (a un prezzo che copra l’ammortamento) le strutture fisiche. Chi assumere (e a che condizioni), chi promuovere, premiare o licenziare, lo decide la cooperativa. O, al massimo, il provveditore. E che il migliore, se vuole, venda i propri servizi a un prezzo (regolato) maggiore. Gli insegnanti di qualità costano, come i luminari della medicina.
E i soldi? Buoni scuola uguali per tutti gli studenti, finanziati con le imposte e spendibili nella scuola di propria scelta. Ciò che conta è il finanziamento pubblico dell’istruzione, fattore di progresso economico e uguaglianza sociale, non la sua gestione diretta. Che, come l’esperienza dimostra, porta spesso a inefficienze e assurdità.
E i programmi? E la qualità dell’insegnamento?
Ci pensa il ministero. Programmi minimi e uniformi a livello nazionale, con aggiunte volontarie locali e qualità dell’insegnamento testata con esami nazionali (basta con regioni dove le lodi si regalano). A questo si dovrebbe dedicare il ministero che, con questa riforma federalista, si svuoterebbe di migliaia di inutili funzionari, liberando risorse per chi l’insegnamento lo produce davvero. Ossia gli insegnanti capaci e volenterosi, in collaborazione con alunni e famiglie.
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