domenica 14 aprile 2013

Contro Ombrina vinciamo NOI



Nel 2009 eravamo pochi ma avevamo già cominciato, seguendo Maria Rita, col metodo delle osservazioni che avremmo poi esportato in tutta Italia. Cercavamo gli avvisi dei nuovi progetti sui giornali, sui siti della Regione e del Ministero, sulle scrivanie degli Uffici tecnici Comunali, piccole vedette nella lotta impari contro l’Abruzzo petrolchimico.

Così, quando intercettammo Ombrina Mare ci mettemmo subito al lavoro.

Non credevamo a quel che leggevamo e la prima lezione che imparammo, passando le notti sugli Studi di Impatto Ambientale, fu che nel mondo degli idrocarburi non si esita di fronte a nulla.

Studiammo le carte, cercammo di trovare più adesioni possibili, preparammo decine di osservazioni. A rileggerle oggi ci si stupisce di come fossimo veramente assai più preparati di chi invece era pagato dall’industria più potente del mondo.

Organizzammo Manifestazioni, prima a San Vito e poi a Lanciano. Eravamo tanti ma forse non ancora abbastanza.

Poi ci fu l’ennesimo disastro in un punto lontano del mondo ma che ebbe effetti anche sulle nostre vite, con quella che festeggiammo come la fine di quel progetto. Ma così non è stato. Hanno denaro e potere, noi formiamo comitati, firmiamo petizioni, scriviamo sui blog e su facebook, loro parlano coi Ministri quando non li nominano. Ed allora, nelle oscure stanze dei Ministeri è stata trovata la soluzione, ed un Governo tecnico dimissionario ha deciso nuovamente delle nostre vite perché “così vuole l’Europa” o – meglio – perché così vuole la BCE.

Qualcuno ha accusato il colpo, ha pensato che la carta della Manifestazione fosse la carta della disperazione, ma non aveva capito che l’aria era finalmente cambiata; che quest’ultimo atto di arroganza, questo sputo in faccia a tutti gli Abruzzesi, era la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso.

Lo si è visto subito dalle prime assemblee, i diversi punti di vista sono stati sommersi dalla volontà di fare. L’organizzazione della Manifestazione è diventata liquida: un flusso di attività, iniziative, persone che si sono messe in moto. Un fiume in piena con i suoi vortici e i suoi attriti ma che correva avanti con sempre più forza.

Chi aveva spinto e chi aveva deciso contro l’Abruzzo non sapeva che noi avevamo continuato a studiare e a lavorare; che mentre consumavano lo stupro di un convegno sul Petrolio nella sede di un Parco Nazionale noi eravamo lì, seduti vicino all’AD della MedoilGas a imparare; che mentre Passera portava avanti la sua strategia, noi eravamo lì a leggere le carte. Non capivano che avevano il fiato sul collo, chissà le facce quando hanno visto, solo pochi giorni dopo il decreto VIA, la pubblicazione dei loro ringraziamenti al Ministro dell’Ambiente per il buon lavoro fatto e l’imbarazzante mistero di Chiodi e la lettera scomparsa.

E così, mentre qualcuno preparava gli striscioni, le trombette e le zampogne, altri denunciavano gli accordi, scrivevano dossier e preparavano i ricorsi. Ed in questa tenaglia è oggi presa l’intera strategia energetica nazionale.

Pescara ci lascia una certezza: ora siamo veramente tanti e siamo veramente forti. Possiamo decidere del nostro futuro e lo vogliamo fare. Per difficile che sia, sappiamo cosa vogliamo e lo costruiremo.

Ancora una volta l’Abruzzo segna una via per l’intero Paese.

Grazie a tutti

venerdì 8 marzo 2013

O+


"C'è chi ama l'ignoto e chi lo teme e per un uomo non c'è nulla di più remoto della mente di una donna"

Il gelsomino notturno

E s'aprono i fiori notturni, 
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari. 
Da un pezzo si tacquero i gridi: 
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici aperti si esala
l'odore di fragole rosse. 
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra 
va col suo pigolio di stelle.
Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento . . .
È l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova. 

Tutto il rapporto tra uomo e donna sta in quel "non so che".

Per l'occasione dimentico Darwin e mi cullo nella bellezza del pigolio di stelle ....

sabato 2 marzo 2013

Un giorno da ricordare

Ieri è stata una giornata da ricordare per cui riprendo l’abitudine di raccontare per coloro che non c’erano.

La sala della Confcommercio era piena, 400 persone, fuori lo striscione “Vogliamo il Parco No al petrolio”, arrivano i politici, a Razzi sulla porta qualcuno chiede cosa ci sia venuto a fare non trattandosi di un torneo di boccette.
I saluti e il pensiero di Maria Rita D’Orsogna seguiti dal primo applauso e si comincia.
Il primo intervento è di Monsignor Forte che ripete la posizione a tutti nota. Un intervento con una nota ironica nei confronti della Medoilgas quando ha riferito di aver detto ai suoi rappresentanti: “se è vero tutto quel che dite, siete stati dei pessimi comunicatori …” .
Cominciano a parlare le associazioni con brevi interventi. Parole di fuoco verso il vertici regionali. La parte da leone la fanno il petrolio e il Parco ma anche il cemento e poi il gasdotto e l’elettrodotto.
L’Università D’Annunzio offre il suo supporto.
Gli Uffici regionali sono più volte chiamati in causa, in tanti parlano ma molti di più avrebbero potuto farlo.
Se altre volte gli interventi erano confusi da altri ostili, ieri è stato un fiume di accuse che si è riversato sulle istituzioni che ascoltavano attonite, impaurite, corpi scivolati lungo le sedie. Costretti alla presenza dalla gravità della situazione che gli è scoppiata tra le mani e di colpo è emersa agli occhi di tutti.
Il primo intervento "istituzionale" è stato quello di Chiodi che ha ribadito il mistero della lettera scomparsa rivendicando tra i commenti ostili le proprie “soluzioni” e mostrando la solita impreparazione. Diversamente da Monsignor Forte, da lui non si è presentato nessuno. Tenta di andarsene e viene richiamato a rispondere sul Parco e ripete chiaramente la posizione nota: la Regione non vuole prendere la decisione che le compete e si giustifica con la mancata unanimità dei comuni. Ripete che non ha intenzione di fare nulla e che aspetterà passivamente il Commissario.
Il PD si mostra particolarmente combattivo suggerendo interventi atti alla ricerca del colpevole della scomparsa della lettera: sia esso al Ministero (falso in atto pubblico) o negli uffici della Regione.
Arriva Di Stefano, particolarmente spaesato e comincia con un dubbio sull’esistenza della lettera, immediatamente gliela fanno avere dal pubblico e lui s’impappina tra l’ilarità generale.
L’eletto nelle liste di Monti si dice ambientalista da sempre e promette lotta agli atti del governo Monti a una platea assai mal disposta.
Il senatore Vacca del M5S è invece in perfetta sintonia col pubblico e termina tra un lunghissimo applauso.
Monsignor Forte, prima di andare, si compiace nel vedere tanti abruzzesi che amano la loro terra.
Febbo va avanti e indietro passando dietro il paravento che chiude il Palco ma, nonostante gli attacchi diretti, alla fine non prende la parola.
L’assessore all’ambiente Giuliante, come al solito, brilla per la sua assenza.
Parlano gli amministratori locali tutti contrari tra cui spiccano quelli di San Vito il cui sindaco, nel Consiglio Comunale straordinario di pochi giorni fa ha concluso dicendo che non vuole Ombrina perché “ostacolerebbe i progetti di Resort, Porto Turistico e albergo diffuso”. Cercano di difendere le proprie posizioni contro il Parco (un carrozzone), ma l’aria è ben diversa da quella della prima manifestazione anti-Parco fatta proprio a San Vito dove gli stessi attaccarono premeditatamente, insultando – tra l’altro – la Prof. D’Orsogna.
L’annuncio di una manifestazione popolare che verrà organizzata per il prossimo 14 Aprile conclude una giornata che sembra essere il definitivo risveglio di quella che la Medoilgas nelle informazioni ai suoi azionisti definiva sostanzialmente una terra di mansueti pecoroni.

domenica 24 febbraio 2013

Una breve riflessione sullo stato della mia (nostra) vita e sul perché io sia - nonostante tutto - felice

Chi si occupa di ambiente, petrolio, energia, acqua, multinazionali, scuola, acquisto solidale, chi contesta i fast-food, chi ha lavorato per i referendum, chi studia la finanza, chi fa la raccolta differenziata, chi ascolta Grillo, tutti questi e mille altri ancora stanno facendo un percorso comune: ognuno socchiude una porta diversa, ma da tutte si può vedere il potere. Quel che noi tutti facciamo è capire come il potere agisca sulle nostre vite. Studiando, scopriamo ogni giorno un mondo per noi quasi incredibile nella sua meschina e folle natura.

Abbiamo così cominciato ad agire contro il potere usando le sue stesse armi, siamo diventati bravi nel fare resistenza. Ma il potere risponde, si adegua, rilancia. Ci sentiamo a volte inutili e inermi di fronte a un potere forte e spietato.

Ma questo non ci ferma, come non ha fermato i partigiani che salivano in montagna; combattevano senza risorse una guerra di cui avevano solo una ristretta visione locale; non credo che pensassero davvero di poter vincere, ma lo facevano e basta.

Per noi è diverso, abbiamo i mezzi per conoscere, questa è la nostra forza; ma la nostra lotta è altrettanto sanguinosa. Lo si capisce se si segue il filo della storia che dalle mense della Caritas si dipana negli anni per paesi di tutto il mondo e ci lega ai desaparecidos di Pinochet o al Cile di Allende. Non meno carica di dolore è poi la rete nello spazio che lega le piattaforme petrolifere di fronte alle nostre spiagge ai villaggi della Nigeria, i nostri contadini al Mozambico, le giovani dei distretti commerciali di Cina e Indonesia alle nostre scarpe, ai nostri vestiti, ai nostri rifiuti, ai nostri inceneritori … . Una ragnatela globale che è cresciuta - come una metastasi - per cinquanta anni ammaliandoci con le sue lusinghe.

Affrontare un solo piccolo problema, significa dunque combattere a fianco di milioni di altre persone. Non ci si può perdere d’animo e non ci si può scoraggiare se si fa parte di una tale comunità.

Anche la forza degli avversari non ci deve spaventare. Alcuni anni fa ho trovato poche persone e in pochi siamo rimasti per lungo tempo. Ma oggi sento di essere nel momento storico in cui la curva dell’impegno e della consapevolezza, dopo anni di crescita quasi impercettibile, si sta impennando.
E’ una dinamica esponenziale, di quelle che - una volta partite - sono difficilissime da fermare; mi aspetto allora di essere solo all’inizio di una spinta uguale e contraria a quelle che invece stanno distruggendo il pianeta: l’aumento esponenziale dello “sviluppo” può essere fermato solo dall’aumento esponenziale di chi persegue la “decrescita”.

L’ultima riflessione è sull’arma più subdola che il potere ha inserito nelle nostre menti: l’individualismo e con esso la solitudine, il narcisismo, la rivendicazione dell’io contro il Noi, l’egoismo. Qui sta l’altro punto comune a tutti i nostri percorsi: per la strada incontriamo nuovamente gli altri, ci riprendiamo la natura umana di animale sociale. Possiamo di nuovo sentirci parte di una folla amica e sorridere allo sconosciuto/a compagno/a di viaggio.

Davvero non capisco come ci si possa sentire vuoti o tristi di fronte alla fortuna di vivere in questo eccitante momento della storia.

Finora stiamo stati a spiare il potere dalle porte socchiuse, ora è venuto il momento di entrare.

giovedì 3 gennaio 2013

2013

Qualcosa era successo - Dino Buzzati - 60 Racconti 1958

Il treno aveva percorso solo pochi chilometri (e la strada era lunga, ci saremmo fermati soltanto alla lontanissima stazione d'arrivo, così correndo per dieci ore filate) quando a un passaggio a livello vidi dal finestrino una giovane donna. Fu un caso, potevo guardare tante altre cose invece lo sguardo cadde su di lei che non era bella né di sagoma piacente, non aveva proprio niente di straordinario, chissà perché mi capitava di guardarla. Si era evidentemente appoggiata alla sbarra per godersi la vista del nostro treno, superdirettissimo, espresso del nord, simbolo per quelle popolazioni incolte, di miliardi, vita facile, avventurieri, splendide valige di cuoio, celebrità, dive cinematografiche, una volta al giorno questo meraviglioso spettacolo, e assolutamente gratuito per giunta.

Ma come il treno le passò davanti lei non guardò dalla nostra parte (eppure era là ad aspettare forse da un'ora) bensì teneva la testa voltata indietro badando a un uomo che arrivava di corsa dal fondo della via e urlava qualcosa che noi naturalmente non potemmo udire: come se accorresse a precipizio per avvertire la donna di un pericolo. Ma fu un attimo: la scena volò via, ed ecco io mi chiedevo quale affanno potesse essere giunto, per mezzo di quell'uomo, alla ragazza venuta a contemplarci. E stavo per addormentarmi al ritmico dondolio della vettura quando per caso - certamente si trattava di una pura e semplice combinazione - notai un contadino in piedi su un muretto che chiamava chiamava verso la campagna facendosi delle mani portavoce. Fu anche questa volta un attimo perché il direttissimo filava eppure feci in tempo a vedere sei sette persone che accorrevano attraverso i prati, le coltivazioni, l'erba medica, non importa se la calpestavano, doveva essere una cosa assai importante. Venivano da diverse direzioni chi da una casa, chi dal buco di una siepe chi da un filare di viti o che so io, diretti tutti al muriccioio con sopra il giovane chiamante. Correvano, accidenti se correvano, si sarebbero detti spaventati da qualche avvertimento repentino che li incuriosiva terribilmente, togliendo loro la pace della vita. Ma fu un attimo, ripeto, un baleno, non ci fu tempo per altre osservazioni.

Che strano, pensai, in pochi chilometri già due casi di gente che riceve una improvvisa notizia, così almeno presumevo. Ora, vagamente suggestionato, scrutavo la campagna, le strade, i paeselli, le fattorie, con presentimenti ed inquietudini.

Forse dipendeva da questo speciale stato d'animo, ma più osservavo la gente, contadini, carradori, eccetera, più mi sembrava che ci fosse dappertutto una inconsueta animazione. Ma sì, perché quell'andirivieni nei cortili, quelle donne affannate, quei carri, quel bestiame? Dovunque era lo stesso. A motivo della velocità era impossibile distinguere bene eppure avrei giurato che fosse la medesima causa dovunque. Forse che nella zona si celebravan sagre? Che gli uomini si disponessero a raggiungere il mercato? Ma il treno andava e le campagne erano tutte in fermento, a giudicare dalla confusione. E allora misi in rapporto la donna del passaggio a livello, il giovane sul muretto, il viavai dei contadini: qualche cosa era successo e noi sul treno non ne sapevamo niente.

Guardai i compagni di viaggio, quelli dello scompartimento, quelli in piedi nel corridoio. Essi non si erano accorti. Sembravano tranquilli e una signora di fronte a me sui sessant'anni stava per prender sonno. O invece sospettavano? Sì, sì, anche loro erano inquieti, uno per uno, e non osavano parlare. Più di una volta li sorpresi, volgendo gli occhi repentini, guatare fuori. Specialmente la signora sonnolenta, proprio lei, sbirciava tra le palpebre e poi subito mi controllava se mai l'avessi smascherata. Ma di che avevano paura?

Napoli. Qui di solito il treno si ferma. Non oggi il direttissimo. Sfilarono rasente a noi le vecchie case e nei cortili oscuri vedemmo finestre illuminate e in quelle stanze - fu un attimo - uomini e donne chini a fare involti e chiudere valige, così pareva. Oppure mi ingannavo ed erano tutte fantasie?

Si preparavano a partire. Per dove? Non una notizia fausta dunque elettrizzava città e campagne. Una minaccia, un pericolo, un avvertimento di malora. Poi mi dicevo: ma se ci fosse un grosso guaio, avrebbero pure fatto fermare il treno; e il treno invece trovava tutto in ordine, sempre segnali di via libera, scambi perfetti, come per un viaggio inaugurale.

Un giovane al mio fianco, con l'aria di sgranchirsi, si era alzato in piedi. In realtà voleva vedere meglio e si curvava sopra di me per essere più vicino al vetro. Fuori, le campagne, il sole, le strade bianche e sulle strade carriaggi, camion, gruppi di gente a piedi, lunghe carovane come quelle che traggono ai santuari nel giorno del patrono. Ma erano tanti, sempre più folti man mano che il treno si avvicinava al nord. E tutti avevano la stessa direzione, scendevano verso mezzogiorno, fuggivano il pericolo mentre noi gli si andava direttamente incontro, a velocità pazza ci precipitavamo verso la guerra, la rivoluzione, la pestilenza, il fuoco, che cosa poteva esserci mai? Non lo avremmo saputo che fra cinque ore, al momento dell'arrivo, e forse sarebbe stato troppo tardi.

Nessuno diceva niente. Nessuno voleva essere il primo a cedere. Ciascuno forse dubitava di sé, come facevo io, nell'incertezza se tutto quell'allarme fosse reale o semplicemente un'idea pazza, allucinazione, uno di quei pensieri assurdi che infatti nascono in treno quando si è un poco stanchi. La signora di fronte trasse un sospiro, simulando di essersi svegliata, e come chi uscendo dal sonno leva gli sguardi meccanicamente, così lei alzo le pupille fissandole, quasi per caso, alla maniglia del segnale d'allarme. E anche noi tutti guardammo l'ordigno, con l'identico pensiero. Ma nessuno parlò o ebbe l'audacia di rompere il silenzio o semplicemente osò chiedere agli altri se avessero notato, fuori, qualche cosa di allarmante.

Ora le strade formicolavano di veicoli e gente, tutti in cammino verso il sud. Rigurgitanti i treni che ci venivano incontro. Pieni di stupore gli sguardi di coloro che da terra ci vedevano passare, volando con tanta fretta al settentrione. E zeppe le stazioni. Qualcuno ci faceva cenno, altri ci urlavano delle frasi di cui si percepivano soltanto le vocali come echi di montagna.

La signora di fronte prese a fissarmi. Con le mani piene di gioielli cincischiava nervosamente un fazzo1etto e intanto i suoi sguardi supplicavano: parlassi, finalmente, li sollevassi da quel silenzio, pronunciassi la domanda che tutti si aspettavano come una grazia e nessuno per primo osava fare.

Ecco un'altra città. Come il treno, entrando nella stazione, rallentò un poco, due tre si alzarono non resistendo alla speranza che il macchinista fermasse. Invece si passò, fragoroso turbine, lungo le banchine dove una folla inquieta si accalcava anelando a un convoglio che partisse, tra caotici mucchi di bagagli. Un ragazzino tentò di rincorrerci con un pacco di giornali e ne sventolava uno che aveva un grande titolo nero in prima pagina. Allora con un gesto repentino, la signora di fronte a me si sporse in fuori, riuscì ad abbrancare il foglio ma il vento della corsa glielo strappò via. Tra le dita restò un brandello. Mi accorsi che le sue mani tremavano nell'atto di spiegarlo. Era un pezzetto triangolare. Si leggeva la testata e del gran titolo solo quattro lettere. IONE, si leggeva. Nient'altro. Sul verso, indifferenti notizie di cronaca.

Senza parole, la signora alzò un poco il frammento affinché tutti lo potessero vedere. Ma tutti avevamo già guardato. E si finse di non farci caso. Crescendo la paura, più forte in ciascuno si faceva quel ritegno. Verso una cosa che finisce in IONE noi correvamo come pazzi, e doveva essere spaventosa se, alla notizia, popolazioni intere si erano date a immediata fuga. Un fatto nuovo e potentissimo aveva rotto la vita del Paese, uomini e donne pensavano solo a salvarsi, abbandonando case, lavoro, affari, tutto, ma il nostro treno no, il maledetto treno marciava con la regolarità di un orologio, al modo del soldato onesto che risale le turbe dell'esercito in disfatta per raggiungere la sua trincea dove il nemico già sta bivaccando. E per decenza, per un rispetto umano miserabile, nessuno di noi aveva il coraggio di reagire. Oh i treni come assomigliano alla vita!

Mancavano due ore. Tra due ore, all'arrivo, avremmo saputo la comune sorte. Due ore, un'ora e mezzo, un'ora, già scendeva il buio. Vedemmo di lontano i lumi della sospirata nostra città e il loro immobile splendore riverberante un giallo alone in cielo ci ridiede un fiato di coraggio. La locomotiva emise un fischio, le ruote strepitarono sul labirinto degli scambi. La stazione, la curva nera delle tettoie, le lampade, i cartelli, tutto era a posto come il solito.

Ma, orrore!, il direttissimo ancora andava e vidi che la stazione era deserta, vuote e nude le banchine, non una figura umana per quanto si cercasse. Il treno si fermava finalmente. Corremmo giù per i marciapiedi, verso l'uscita, alla caccia di qualche nostro simile. Mi parve di intravedere, nell'angolo a destra in fondo, un po' in penombra, un ferroviere col suo berrettuccio che si eclissava da una porta, come terrorizzato. Che cosa era successo? In città non avremmo più trovato un'anima? Finché la voce di una donna, altissima e violenta come uno sparo, ci diede un brivido.

" Aiuto! Aiuto! " urlava e il grido si ripercosse sotto le vitree volte con la vacua sonorità dei luoghi per sempre abbandonati.

giovedì 15 novembre 2012

Coblìa

Un perpetuo richiamo scandisce la vita di Coblìa: un suono, un battito, un tintinnio, un ticchettare, aritmico ma ineluttabile. Si presenta talvolta così fievole e remoto, che solo chi lo conosce da sempre lo discerne dal fruscio delle foglie o dal borbottare lontano dei motori. Talvolta è invece assordante, ripetuto da moltitudini di fonti, si riflette e risuona ovunque in infiniti echi. Un suono conosciuto nel ventre materno quando – forse – un sobbalzo nel pulsare del cuore ne segnalava la presenza.

Con quel suono, la città ricorda in ogni momento l'origine della sua esistenza, lo scopo delle quotidiane difficoltà, i motivi per andare fieri di esserne cittadini.

Se il silenzio giunge inaspettato, la nota prosegue nelle menti, propagandosi tra i ricordi, e viene mantenuta tra le parole, nelle intonazioni; modificando ora un richiamo ora un saluto; fischiettando.

Alcuni temerari si allontanano comunque dalla città inerpicandosi da soli lungo sentieri remoti - privi del tepore della risonanza collettiva - che portano all'inquietudine, all'ansia ed infine alla paura. Quasi tutti tornano in fretta al rassicurante mormorio.

Pochissimi resistono fino a quando una domanda pone termine al tormento di quel rumoroso silenzio. Una fastidiosa, irritante, stupida domanda con la sua sconcertante risposta.

Solo quando del suono non rimane che la nostalgia, ci si accorge che nessuno ha mai veramente saputo cosa renda Coblìa tanto speciale e che a tenerla assieme è - e sempre è stato - solo il nulla di una fiducia cieca.

lunedì 12 novembre 2012

Ode al vento dell'ovest

 I
Oh tu selvaggio vento dell’Ovest, respiro dell’essenza dell’autunno,
tu, dalla cui invisibile presenza le foglie morte
sono trascinate, come spettri in fuga da un incantatore.
Gialle e nere e pallide e febbrilmente rosse,
moltitudini colpite dalla pestilenza: oh tu
che sospingi ai loro oscuri letti dell’inverno
i semi alati, dove giacciono freddi e profondi,
ognuno come cadavere nella sua tomba, finché
la tua azzurra sorella della primavera soffierà
nel suo corno sulla sognante terra, e colmerà
(guidando i dolci germogli come greggi a pascolare nell’aria)
di vivaci colori e profumi pianura e collina:
oh Spirito selvaggio, che spiri per ogni dove;
distruttore e preservatore; ascolta, oh ascolta!
II
Tu nella cui corrente, in mezzo al tumulto dell’alto cielo,
nuvole sciolte come foglie cadenti della terra sono sparse,
scosse dai rami aggrovigliati di Cielo e Oceano,
messaggeri di pioggia e lampi: là sono disperse
sull'azzurra superficie del tuo aereo ondeggiare,
come i lucenti capelli sollevati dalla testa
d'una feroce Menade, perfino dal fosco margine
dell'orizzonte fino all’altezza dello zenit,
le serrature della tempesta in arrivo. Tu, canto funebre
dell'anno morente, al quale questa notte che sta finendo
sarà la cupola di un sepolcro immenso,
cui fa da volta da tutta la potenza concentrata
di vapori, dalla cui densa atmosfera
esploderanno nera pioggia e fuoco e grandine: oh, ascolta!
III
Tu che svegliasti dai suoi sogni estivi
l’azzurro Mediterraneo, dove giaceva
cullato dal gorgoglio dei suoi flutti cristallini,
accanto a un'isola di pomice nella baia di Baiae,
e vedesti nel sonno antichi palazzi e torri
tremolanti nella luce più intensa dell'onda
tutti sommersi da muschio azzurro e fiori
così dolci, che nel raffigurarli il senso viene meno! Tu
al cui passaggio la potente superficie d'Atlantico
si squarcia in abissi, mentre giù in profondità
le inflorescenze marine e i boschi fangosi, che indossano
le foglie avvizzite dell'oceano, conoscono
la tua voce, e si fanno all'improvviso grigi di paura,
e tremano e si spogliano: oh, ascolta!
IV
Se io fossi una foglia appassita che tu potessi portare;
se fossi una veloce nuvola per volare con te;
un'onda che ansima sotto il tuo potere, e condivide
l'impulso della tua forza, soltanto meno libera
di te, oh tu che sei incontrollabile! Se anche
io fossi nella mia fanciullezza, e potessi essere
il compagno dei tuoi vagabondaggi nel cielo,
come allora, quando superare la tua celeste velocità
a mala pena sembrava una visione, io mai avrei gareggiato
così con te in preghiera nel mio estremo bisogno.
Ti prego, innalzami come un'onda, una foglia, una nuvola.
Cado sopra le spine della vita! Sanguino!
Un grave peso di ore ha incatenato, piegato
uno a te troppo simile: indomito, veloce e orgoglioso.
V
Fa di me la tua cetra, come lo è anche la foresta;
che cosa importa se le mie foglie cadono come le sue!
Il tumulto delle tue potenti armonie
acquisterà da entrambi un profondo canto autunnale
dolce nella sua tristezza. Che tu sia, o spirito fiero,
il mio spirito! Che tu sia me, spirito impetuoso!
Guida i miei morti pensieri per l'universo
come foglie ingiallite per affrettarmi una nascita nuova;
e con l'incanto di questi miei versi,
spargi, come da un focolare non ancora spento
ceneri e faville, le mie parole fra il genere umano!
Che tu sia attraverso le mie labbra, per una terra non ancora desta
la tromba d'una profezia! Oh, vento,
se viene l'Inverno, può essere lontana la primavera?

If Winter comes, can Spring be far behind?
Percy Bysshe Shelley (1819)

venerdì 2 novembre 2012

Tutto crolla anche nell'IDV



Oggi nell'IDV molti nodi vengono al pettine.

Le accuse rivolte a Di Pietro sono sostanzialmente infondate (a parte quella di familismo), ma le sue colpe sono altre e non è un caso che il partito, invece di fare fronte comune, cavalchi l'onda.

Chi conosce un poco le cose sa che l'IDV è stata terra di conquista per fuoriusciti di ogni dove: contano poco i valori e molto di più i voti.

I rapporti con movimenti ed associazioni non sono mai stati buoni; c'è sempre stato il tentativo di porre un cappello sul lavoro altrui: basti pensare al referendum sull'acqua; mentre Grillo si è sempre negato.

Andato Berlusconi, non c'era più nulla a cui appoggiarsi e pian piano si è fatta avanti l'impressione che l'opposizione fosse solo una tattica per giustificare la propria esistenza.
L'unica cosa che poteva salvare il partito erano e sono le persone. Ma fino ad oggi da quest'orecchio nessuno ha sentito.

Fa specie leggere che Di Pietro si accorge solo ora di quel che ha nel partito: "Certo, tutti quelli che nell’IdV, fino ad oggi, ne hanno approfittato e speravano di poterne approfittare ancora per riciclarsi, con abili manovre di trasformismo politico, fanno bene ad essere preoccupati. Perché sono effettivamente arrivati al capolinea all’interno del partito. E’ bene che costoro si preparino a traslocare altrove, giacché il Congresso prossimo venturo che ci aspetta non è, né può essere, riservato solo agli amici e agli amici degli amici. Insomma, a coloro che portano un mucchietto di tessere ogni tanto solo per assicurarsi una ricandidatura e una poltrona, sfruttando il lavoro e lo sforzo dei tanti, tantissimi militanti e dirigenti perbene che hanno fatto il loro dovere civico dentro il partito."
Perché - se solo ora si rende conto di questo verminaio - non si ricrede anche su Berlusconi riconoscendo che - allo stesso modo - è plausibile pensare che fosse in buona fede quando credeva Mangano uno stalliere e Ruby la nipote di Mubarak?

Ma non c'è via di scampo: da una parte il PD che vuole le mani libere e dall'altra Grillo. Non è "un killeraggio, di un sistema politico e finanziario": se proprio si voleva far fuori l'IDV bastava lasciarla andare avanti da sola; se invece si fosse coalizzata con qualcuno l'attacco avrebbe dovuto partire a dieci giorni dalle elezioni in modo da affondare l'intero gruppo. Anche qui le parole di Di Pietro mi ricordano gli strepiti sulle "sentenze ad orologeria" di berlusconiana memoria.

La cosa divertente è che ora - accusato di scarsa democrazia interna nella scelta dei candidati e nella gestione economica del Partito - si butta nelle braccia di Grillo: l'ultimo partito personale si vorrebbe sposare con il primo movimento personale.

Entrambi non capiscono che i leader uccidono la politica (spesso non lo capiscono neppure gli elettori e gli iscritti) e così stanno uccidendo le loro creature.

Io ho perso la fiducia in Di Pietro molto tempo fa: quando - al primo congresso - ci presentò il Sindaco di Salerno chiedendo all'assemblea di valutarlo. Il sindaco fece un bel discorso e tante promesse (è molto bravo in questo) ma poi non vinse e se le rimangiò. Di Pietro sapeva benissimo con chi aveva a che fare (De Magistris abbandonò il congresso) e col suo beneplacito lo aiutò ad ingannarci (qui il post di come ci sono caduto anch'io).


Un po' di tempo fa - quando si era ancora sulle due cifre - mi dissero che il partito era il "meno peggio". Era la diagnosi di un male incurabile ma nessuno sembrava accorgersene.

Ora la fine è quasi inevitabile a meno che - con una qualche magia - non si riesca a trasformarlo in qualcosa di simile al movimento a cinque stelle, ma senza un Grillo.

Vedremo …