venerdì 19 febbraio 2010

Una capriola della mente

Lo sfruttamento petrolifero in Abruzzo non porta ad alcun ritorno economico collettivo, ma solo a danni permanenti per l'ambiente e la salute.

Ne ho scritto io e ne hanno scritto molti altri, è un fatto certo su cui non è il caso di spendere altre parole.

Oggi voglio riflettere sul perchè, nonostante questo, ci sia questa invasione di trivelle.

Pensandoci bene questo caso è simile a mille altri: la privatizzazione dell'acqua, le grandi opere, l'H1N1, il terremoto dell'Aquila, le guerre in Iraq ed Afghanistan, il riscaldamento globale, la pubblicità dei detersivi e le stragi del sabato sera, tanto per elencarne qualcuno.

La prima reazione è l'incredulità, lo smarrimento: quale combinazione di stupidità, cupidigia e ignoranza può infatti giustificare queste scelte suicide?

Com'è possibile, per tornare al petrolio, che una piccola azienda petrolifera, possa tranquillamente pensare di venire a casa nostra e fare quel che vuole senza che - apparentemente - ci si possa opporre, senza che nessuno dica nulla e senza nessuno che prenda le nostre difese, anzi, favorita da Stato, Regione e Comuni.
Com'è possibile che da un giorno all'altro gli investimenti, i progetti personali, la salute stessa possano essere spazzati via da interessi "superiori"?

Basta poco però per capire che questo è l'effetto dell'ordine mondiale dei nostri tempi. Un ordine in cui il capitale è "liquido" cioè del tutto indipendente dalle strutture produttive e a maggior ragione dai lavoratori e dalle persone. Un capitale che persegue la sua unica logica che è il guadagno, un guadagno per pochi che è sostenuto dall'illusione di molti piccoli "investitori", che credono di poter partecipare al banchetto, e dalle sofferenze del resto dell'umanità sulla cui testa accade tutto ciò.

Un capitale che non ha scrupoli nell'agire e meno che mai una visione di lungo periodo.

Un capitale che - nel nostro esempio - cerca di sfruttare al massimo gli ultimi giacimenti di idrocarburi senza preoccuparsi della salute delle persone, pronto a spostarsi altrove non appena le risorse si esauriranno o in caso di incidente, senza altre preoccupazioni che quella del guadagno.

Lo stesso capitale che abbandona le fabbriche (e i lavoratori) non appena cambia il vento o che determina gli investimenti pubblici nel nostro paese.

Un capitale che è in grado di distruggere intere nazioni e che i nostri governi non cercano neppure di contrastare, riconoscendo la propria totale incapacità. Sono così deboli e inetti che non possono nemmeno vendersi e quindi - semplicemente - si inginocchiano implorando di essere scelti, favorendone la sosta con infrastrutture, benefici fiscali o offrendo la libertà di fare e disfare senza neppure contrattare, regalando la nostra salute e il nostro territorio in cambio di qualche osso che il padrone benevolo ogni tanto tira al cane. Una resa senza condizioni.

Un capitale che con le sue logiche distanti e con la sua pubblicità (palese o occulta) porta la precarietà nella vita di tutti i giorni. Una precarietà che penetra nei pensieri, nelle azioni quotidiane, che fa scomparire tutto ciò che è stabile: ideali e progetti di vita, legami personali, la libertà (chi vive nella paura e nell'incertezza scende a patti, non ha il coraggio di essere libero).

Una precarietà che ha fatto sparire il concetto stesso di futuro: se nulla è certo rimane solo l'hic et nunc (qui ed ora) e quindi le uniche gratificazioni che mantengono un loro senso sono solo quelle immediate.
Perde senso l'impegno, lo studio, non esiste più la vecchiaia e tanto meno la morte.
Se non esiste un futuro non esiste responsabilità, quel che si fa (o si lascia fare) non ha conseguenze o punizioni - non ha quindi senso ricordare a un politico - che è quasi sempre un ingranaggio di questo sistema - un possibile giudizio futuro sulle sue azioni: semplicemente non gli importa.

Neppure i figli ci ricordano più che il tempo passa, non li educhiamo più (l'educazione è per definizione un investimento sul futuro): cerchiamo solo di rendere il loro presente senza pensieri contribuendo a distruggerne la vita. Come per i politici, oggi non ha più senso prospettare ad uno studente la bocciatura: il loro orizzonte temporale arriva a malapena a sabato prossimo.

Una precarietà che ci ha corroso fin nelle più piccole azioni quotidiane, che ci fa buttare la spazzatura nel prato vicino a casa per non raggiungere il cassonetto (azione che - in piccolo - ha gli stessi effetti di una piattaforma di estrazione o di un inceneritore vicini alla spiaggia dove andiamo al mare con i figli).

Quando ci opponiamo al petrolio è a questo che ci opponiamo: ad un sistema che si basa sul profitto e sullo sfruttamento, che plasma le menti usando la paura, l'ignoranza, la confusione, che crea false necessità corredate di risposte altrettanto fatue, che promette la libertà di scegliere ma solo tra le opzioni permesse.

Un sistema che si autosostiene grazie alle sue stesse vittime che, fino a che tutto andava bene, erano perfino felici: coi vestiti firmati, la nuova tv con il calcio in HD, l'auto nuova e quella morale consumistica che si è diffusa a macchia d'olio negli ultimi cinquant'anni; unendo quelle che una volta erano le classi sociali, ma in un modo tale che il valore della somma è di gran lunga minore di quello dei singoli addendi. Oggi che invece le cose stanno cambiando, la rabbia viene nascosta o incanalata contro gli altri: tutti devono avere paura di tutti ed essere soli.

Questa società, una volta compresa, si mostra nella sua totale assurdità; la stessa assurdità dei progetti petroliferi.

Quando leggiamo i documenti siamo sbigottiti, non ci possiamo credere. Ci arrabbiamo e siamo spaventati, ci sentiamo soli, impotenti e in balia di forze "superiori". Vorremmo fare finta di niente.

E' la reazione prevista: chi comincia a capire è pericoloso per cui deve avere paura e sentirsi impotente; se la paura non basta si passerà ad un altro livello: alle minacce, alle ritorsioni, alle manganellate.

Ma con una capriola della mente possiamo saltare oltre la paura: una volta che siamo riusciti a capire quel che ci circonda, una volta raggiunta un'interpretazione del mondo, si ha una trasformazione. La consapevolezza ci dà finalmente sicurezza, allontana la precarietà, ci permette di tornare a vivere e ad agire.

Qualche mese fa vedevo lo sgomento negli occhi della persona con cui stavo parlando e non riuscivo a spiegarmi perchè io fossi invece contento e - sinceramente - questa mia leggerezza mi sembrava pure fuori luogo.

Ora ho capito: se non conosci il tuo mondo hai terrore di tutto, se invece impari a riconoscere i pericoli puoi finalmente organizzarti, riprendere il controllo, cominciare a costruire qualcosa per il futuro e - perchè no - anche esserne contento.

Forse ci vorranno generazioni ma prima o poi riusciremo a cambiare le cose (tra ottimismo e pessimismo il primo mi fa vivere meglio e quindi sono ottimista).

Intanto cerchiamo di capire il mondo che ci sta attorno: è il primo passo di una lunga strada.

Il petrolio è quindi solo uno dei problemi e nemmeno il più grande, ma è un'ottima palestra per rimettersi in forma.

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