lunedì 27 luglio 2009

La scuola ha smesso di insegnare

di Luca Ricolfi (fonte)

Sulla scuola e l’università ognuno ha le sue idee, più o meno progressiste, più o meno laiche, più o meno nostalgiche. C’è un limite, però, oltre il quale le ideologie e le convinzioni di ciascuno di noi dovrebbero fermarsi in rispettoso silenzio: quel limite è costituito dalla nuda realtà dei fatti, dalla constatazione del punto cui le cose sono arrivate. Quale che sia l’utopia che ciascuno di noi può avere in testa, la realtà com’è dovrebbe costituire un punto di partenza condiviso, da accettare o combattere certo, ma che dovremmo sforzarci di vedere per quello che è, anziché ostinarci a travestire con i nostri sogni.

Queste cose pensavo in questi giorni, assistendo all’ennesimo dibattito pubblico su scuola e università, bocciature e cultura del ’68, un dibattito dove - nonostante alcune voci fuori dal coro - la nuda realtà stenta a farsi vedere per quella che è. La nuda realtà io la vedo scorrere da decenni nel mio lavoro di docente universitario, la ascolto nei racconti di colleghi e insegnanti, la constato nei giovani che laureiamo, la ritrovo nelle ricerche nazionali e internazionali sui livelli di apprendimento, negli studi sul mercato del lavoro. Eppure quella realtà non si può dire, è politicamente scorretta, appena la pronunci suscita un vespaio di proteste indignate, un coro di dotte precisazioni, una rivolta di sensibilità offese.

Io vorrei dirla lo stesso, però. La realtà è che la maggior parte dei giovani che escono dalla scuola e dall’università è sostanzialmente priva delle più elementari conoscenze e capacità che un tempo scuola e università fornivano.

Non hanno perso solo la capacità di esprimersi correttamente per iscritto. Hanno perso l’arte della parola, ovvero la capacità di fare un discorso articolato, comprensibile, che accresca le conoscenze di chi ascolta. Hanno perso la capacità di concentrarsi, di soffrire su un problema difficile. Fanno continuamente errori logici e semantici, perché credono che i concetti siano vaghi e intercambiabili, che un segmento sia un «bastoncino» (per usare un efficace esempio del matematico Lucio Russo). Banalizzano tutto quello che non riescono a capire.

Sovente incapaci di autovalutazione, esprimono sincero stupore se un docente li mette di fronte alla loro ignoranza. Sono allenati a superare test ed eseguire istruzioni, ma non a padroneggiare una materia, una disciplina, un campo del sapere. Dimenticano in pochissimi anni tutto quello che hanno imparato in ambito matematico-scientifico (e infatti l’università è costretta a fare corsi di «azzeramento» per rispiegare concetti matematici che si apprendono a 12 anni). A un anno da un esame, non ricordano praticamente nulla di quel che sapevano al momento di sostenerlo. Sono convinti che tutto si possa trovare su internet e quasi nulla debba essere conosciuto a memoria (una delle idee più catastrofiche di questi anni, anche perché è la nostra memoria, la nostra organizzazione mentale, il primo serbatoio della creatività).

Certo, in mezzo a questa Caporetto cognitiva ci sono anche delle capacità nuove: un ragazzo di oggi, forse proprio perché non è capace di concentrazione, riesce a fare (quasi) contemporaneamente cinque o sei cose. Capisce al volo come far funzionare un nuovo oggetto tecnologico (ma non ha la minima idea di come sia fatto «dentro»). Si muove come un dio nel mare magnum della rete (ma spesso non riconosce le bufale, né le informazioni-spazzatura). Usa il bancomat, manda messaggini, sa fare un biglietto elettronico, una prenotazione via internet. Scarica musica e masterizza cd. Gira il mondo, ha estrema facilità nelle relazioni e nella vita di gruppo. È rapido, collega e associa al volo. Impara in fretta, copia e incolla a velocità vertiginosa.

Però il punto non è se siano più le capacità perse o quelle acquisite, il punto è se quel che si è perso sia tutto sommato poco importante come tanti pedagogisti ritengono, o sia invece un gravissimo handicap, che pesa come una zavorra e una condanna sulle giovani generazioni. Io penso che sia un tragico handicap, di cui però non sono certo responsabili i giovani. I giovani possono essere rimproverati soltanto di essersi così facilmente lasciati ingannare (e adulare!) da una generazione di adulti che ha finto di aiutarli, di comprenderli, di amarli, ma in realtà ha preparato per loro una condizione di dipendenza e, spesso, di infelicità e disorientamento.

La generazione che ha oggi fra 50 e 70 anni ha la responsabilità di aver allevato una generazione di ragazzi cui, nei limiti delle possibilità economiche di ogni famiglia, nulla è stato negato, pochissimo è stato richiesto, nessuna vera frustrazione è mai stata inflitta. Una generazione cui, a forza di generosi aiuti e sostegni di ogni genere e specie, è stato fatto credere di possedere un’istruzione, là dove in troppi casi esisteva solo un’allegra infarinatura. Ora la realtà presenta il conto. Chi ha avuto una buona istruzione spesso (non sempre) ce la fa, chi non l’ha avuta ce la fa solo se figlio di genitori ricchi, potenti o ben introdotti. Per tutti gli altri si aprono solo due strade: accettare i lavori, per lo più manuali, che oggi attirano solo gli immigrati, o iniziare un lungo percorso di lavoretti non manuali ma precari, sotto l’ombrello protettivo di quegli stessi genitori che per decenni hanno festeggiato la fine della scuola di élite.

Un vero paradosso della storia. Partita con l’idea di includere le masse fino allora escluse dall’istruzione, la generazione del ’68 ha dato scacco matto proprio a coloro che diceva di voler aiutare. Già, perché la scuola facile si è ritorta innanzitutto contro coloro cui doveva servire: un sottile razzismo di classe deve avere fatto pensare a tanti intellettuali e politici che le «masse popolari» non fossero all’altezza di una formazione vera, senza rendersi conto che la scuola senza qualità che i loro pregiudizi hanno contribuito ad edificare avrebbe punito innanzitutto i più deboli, coloro per i quali una scuola che fa sul serio è una delle poche chance di promozione sociale.

Forse, a questo punto, più che dividerci sull’opportunità o meno di bocciare alla maturità, quel che dovremmo chiederci è se non sia il caso di ricominciare - dalla prima elementare! - a insegnare qualcosa che a poco a poco, diciamo in una ventina d’anni, risollevi i nostri figli dal baratro cognitivo in cui li abbiamo precipitati.

2 commenti:

Confucio ha detto...

A margine di questa interessante disamina sulla Scuola italiana, voglio anche aggiungere il solito 'Convitato di pietra' (qui dimenticato: il Sindacato, molto responsabile del 'degrado' culturale ed economico degli insegnanti e di tutti coloro che vivono nella Scuola!), perciò riporto un interessante articolo giornalistico 'di parte': buona lettura e buona 'meditazione'!

·OPINIONI| di Giuseppe Caliceti 17 marzo 2009 il manifesto
LETTERA APERTA
Cari sindacati, avete lasciato sola la scuola

Cari sindacati vi scrivo, cari sindacati tutti della scuola (più o meno confederati), vi scrivo per esprimere la mia preoccupazione e quella di tanti altri miei colleghi e genitori di alunni e studenti che nei mesi scorsi hanno dato vita al cosiddetto movimento dell'Onda primaria e ancora fanno parte di tanti coordinamenti per difendere la scuola pubblica italiana, non solo per protestare civilmente contro gli effetti negativi della riforma Gelmini, ma perché sono stupito dal vostro comportamento. Gilda, Cisl e Uil: avete firmato un contratto che prevede un aumento di salario mensile di 8 euro: neppure l'offensiva social-card governativa è così vergognosa. Voi della Cgil non avete firmato, ma invece di proporre un referendum tra i docenti sulla riforma Gelmini (è quello che tutti ci aspettiamo, visto che non siamo stati consultati dal governo ma neppure dai sindacati), ne avete proposto solo uno per sapere se avevate fatto bene o male a non siglare il nuovo contratto.
Comunque, tutti siete stati molto morbidi e gentili col governo di fronte ai suoi attacchi violenti per smantellare la scuola pubblica italiana. Più volte siete stati presi alla sprovvista dalle sue decisioni. O siete arrivati in ritardo rispetto all'indignazione e alla protesta «dal basso». Dopo anni in cui avete attivamente contribuito a fare della scuola italiana di base una delle migliori del mondo, oggi la vostra proposta è riassumibile nel motto al ribasso: «Salviamo il salvabile». In tanti non capiamo il vostro comportamento schizofrenico. Da una parte firmate e trattate a nostro nome col governo (pensiamo agli organici), dall'altra organizzate convegni mostrando preoccupazione per la piega che stanno prendendo le cose e, nelle assemblee sindacali, vi dichiarate contro numerosi aspetti della riforma Gelmini. A che gioco state giocando?
Mi pare che i sindacati confederali si siano mossi in ben altro modo di fronte ai possibili licenziamenti di Alitalia o della Fiat, che sono molto meno di quelli annunciati da Gelmini. Pensate se domani il governo decidesse di far fuori in tre anni 250.000 posti di lavoro nei sindacati confederali: la vostra mobilitazione sarebbe un po' diversa da quella che c'è stata - anche da parte della Cgil - per difendere la scuola pubblica italiana. Siete lì per rappresentare e ascoltare chi lavora nella scuola, ricordatevelo. Compresi la sua rabbia, la sua frustrazione, la sensazione di spaesamento di fronte a quanto sta accadendo. E non chiedeteci «a chi giova questa polemica»; non diteci «così si fa il gioco del nemico»: non è tempo.
Spesso, in questi mesi, mi sono chiesto il perché del vostro comportamento. Scusatemi per questo esercizio di fantapolitica, ma credo che siate stati ricattati: non può essere altrimenti. Il governo deve avervi detto qualcosa del tipo: o tagliamo voi, o i lavoratori che rappresentate. E non parlateci di crisi economica: guardate Obama, non si risparmia sulla pelle dei bambini e dei ragazzi e sul nostro futuro! Comunque siano andate le cose, il risultato adesso è questo: il governo appare più forte di prima e la fiducia nei sindacati in genere, almeno tra i lavoratori della scuola, è diminuita: basta fare un giro per le scuole o nelle assemblee sindacali. Ecco, ora sarebbe il momento ideale perché un governo di destra che già più volte ha attaccato in vari modi la nostra Costituzione, sferrasse un colpo mortale ai sindacati. Basta un annuncio della Gelmini, di Tremonti, di Berlusconi o della Gelmini. Amplificato ad arte a reti unificate. Sicuri che non avete sbagliato niente?

il Poeta ha detto...

Oh, Lorenzo, hai perso la favella
su questa nostra Scuola bella?

Dove ogni sindacalista prepotente
sa solo comportarsi da gran fetente

per il proprio personale tornaconto
da poi far girare in bancario conto

Rispondi a Confucio e alla tua coscienza
Tu che sei cotanto uomo di sostanza e di scienza!